Il Mulino

Il mulino idraulico ha rappresentato per parecchi secoli, assieme ai centimoli, il sistema fondamentale per la macinazione dei cereali in Sardegna. Sottintesa la collocazione limitrofa ad un corso d’acqua, atta a garantire l’approvvigionamento di acqua corrente, un canale artificiale (“gora”) aveva la funzione di prelevare, tramite una derivazione impostata nella sponda del rio, parte dei deflussi idrici al fine di indirizzarli verso uno o, in sequenza, più mulini. Talora ricorreva la presenza, lungo il corso d’acqua, di uno sbarramento trasversale (“nassa”, “forte”), poco a valle della derivazione, con la funzione di arginare e rallentare lo scorrimento dell’acqua e agevolare la deviazione verso il canale artificiale. L’opificio molitorio vero e proprio era la costruzione deputata all’alloggio dell’impianto di macinazione, azionato da una ruota orizzontale o verticale. 

Lo sbarramento


Trasversalmente al corso d’acqua era spesso disposto, e tenuto in perfetta efficienza, uno sbarramento permeabile costituito da una struttura di grossi ciottoli e blocchi di pietra (“forte”, Rio Accoro di Samugheo, Foto 1) o mediante pali infissi nel fondo dell’alveo e riempiti di ciottoli e sterpame di legno (“nasse” di Fluminimaggiore), con la funzione di provvedere al rallentamento del flusso dell’acqua e all’innalzamento del suo livello; tale struttura consentiva, in sintesi, la parziale derivazione dei deflussi verso il condotto artificiale (“gora”) impostato nella sponda del corso d’acqua (es. Riu Torrei di Tiana, Foto 2).
Lo sbarramento poteva essere disposto ortogonale rispetto la direzione di deflusso del rio o, meglio, leggermente obliquo verso la sponda di innesto della gora, al fine di agevolare la deviazione dello scorrimento idrico oltre a garantire un impatto meno violento dell'acqua con lo stesso sbarramento. 
 

Il canale artificiale

L’approvvigionamento di acqua necessaria al funzionamento dell’impianto di macinazione avveniva attraverso la realizzazione di un sistema di derivazione e convoglio degli apporti idrici dal corso d’acqua; un canale artificiale (“gora”), laterale al rio stesso, conduceva l’acqua al mulino o, in successione, alla serie di opifici idraulici ubicati nella medesima sponda.
La canalizzazione, di sezione geometrica ben definita in tutto il suo percorso, permetteva l’approvvigionamento della forza idraulica con una determinata portata e, soprattutto, con un regime pressoché regolare, a differenza di quello generalmente irregolare del corso d’acqua principale, oltre alla possibilità di regolare la velocità d’ingresso del flusso idrico al meccanismo molitorio.
La gora, dal punto d’innesto con il corso d’acqua fino al punto di ricongiunzione, in genere presso lo stesso canale naturale, aveva una lunghezza e conformazione variabile in funzione dell’orografia e, soprattutto, dal numero e ubicazione dei mulini da servire. 
Dal punto di vista costruttivo la gora veniva realizzata soprattutto in scavo nel terreno (es. Riu Cherchelighes, Scano Montiferro, Foto 1; Riu Accoro, Samugheo, Foto 2), come una classica cunetta agraria di drenaggio, con sezione trapezia o rettangolare; talora fondo e sponde potevano essere rivestite con pietrame o lastre di roccia (es. Mulino, Paulilatino, Foto 3). Spesso questo condotto risulta costruito fuori terra, con struttura in muratura o pietrame opportunamente cementato (es. M° Demontis, Guspini, Foto 4; Rio Piras, Gonnosfanadiga, Foto 5), o realizzato tramite canalette sospese (es. Riu Mannu, Tresnuraghes, Foto 6). 
Il canale artificiale conduceva l’acqua intercettata nel rio direttamente al mulino, per essere poi, una volta attivato l’impianto molitorio, scaricata nello stesso nel tratto più a valle. Spesso la gora garantiva la fornitura di forza idraulica a più mulini disposti in successione lungo la medesima sponda del fiume. In genere prima di giungere al mulino una biforcazione permetteva all’acqua di by-passarlo e proseguire il suo decorso nel canale principale, assicurando l’afflusso ad eventuali opifici disposti più a valle (es., Riu Accoro, Samugheo, Foto 7). Oppure, a partire dalla derivazione principale, diversi canali, innestati a pettine e provvisti di chiusa, permettevano di rifornire di acqua i mulini disposti in successione, rendendoli ugualmente autonomi.

In prossimità del mulino, se questo era costituito da più impianti di macinazione, la gora veniva scomposta in brevi condotti adduttori indirizzati ai diversi vani nei quali erano alloggiate le turbine (es. Mulino Demontis, Guspini, Foto 8). Talora, nell’ambito di uno stesso caseggiato, il canale di scarico proveniente dal vano della ruota poteva convogliare il deflusso alla ruota attigua. Spesso, nel caso di mulini complessi con impianti di macinazione ubicati in edifici distinti, la gora, oltre ad azionare il primo meccanismo molitorio, veniva by-passata per aggirare l’edificio e indirizzarsi al caseggiato successivo, assicurando questo anche dei contributi di scarico della ruota precedente (es. Mulino Tirizzas, Samugheo, Foto 9). Nel caso di arresto dell’attività, il singolo mulino poteva escludere l’arrivo dell’acqua e, di conseguenza, il funzionamento dell’impianto molitorio, semplicemente interrompendo, tramite una paratia di servizio removibile (paratia), il tratto di canale adduttore di sua pertinenza, assicurando lo scorrimento del flusso idrico verso i mulini dislocati più a valle (es. Mulino Tirizzas, Samugheo, Foto 10).



L'edificio molitorio


In Sardegna il mulino idraulico risulta sostanzialmente, nei caratteri costruttivi, architettonici e tecnico-funzionali, essenziale. Nella configurazione più semplice, e probabilmente anche più diffusa, si tratta di un piccolo edificio in pietrame a pianta rettangolare, con un unico ambiente adibito alla lavorazione, caratterizzato da tetto spiovente ad unica falda, con una bassa porta d’ingresso ed una piccola finestrella (es. M° ‘e Feurra, Paulilatino, Foto 1).
Frequentemente la costruzione appare organizzata in due ambienti, affiancati o in sequenza, collegati da una porta o con ingressi indipendenti: una stanza adibita alla lavorazione, l’altra come deposito, ripostiglio o alloggio.
Il materiale da costruzione della struttura muraria è rappresentato dalla pietra locale (granito, trachite, basalto, calcare, arenaria, scisti, ecc.), talora messa in opera in maniera raffinata con solidi blocchi squadrati (es. M° Caparedda, Nuoro, Foto 2), ma più spesso era costituito da ciottoli poco o per nulla lavorati, spesso provenienti dai versanti o dal greto dei corsi d'acqua ("trovanti") (es. mulini lungo il Riu Cherchelighes di Tresnuraghes, Foto 3), talora appena sbozzati (es. Molinu Maladrottu, Loiri, Foto 4), disposti a secco o legati con malta.  
Dove la disponibilità di materiali lapidei era scarsa o nulla la muratura del mulino veniva edificata con mattoni in ladiri, composti tramite un miscuglio di fango e paglia (mulini lungo la vallata del Riu Cixerri nel Sulcis-Iglesiente, es. M° Bagasti, Villamassargia, Foto 5). Spesso le murature in pietrame, se non lasciate a vista, risultano intonacate all’interno e rivestite in malta di calce all’esterno.
Il tetto è generalmente spiovente monofalda o a doppia falda, con struttura in legno e copertura in coppi, come pure in legno risultano gli orizzontamenti e gli infissi.
Talora il sito, nella configurazione più complessa, presenta un insieme di ambienti accorpati in un unico edificio o distaccati tra loro, con distinzione tra quelli destinati alla fase produttiva vera e propria, quelli di servizio (magazzino, ripostiglio, officina, ecc.) e, eventualmente, abitativi (es. M° Zurru-Licheri, Foto 6; M° Don Paulo, Gesturi, Foto 7; Mulino Logulentu, Sassari, Foto 8). In molti casi sono presenti, nello stesso sito, piccoli caseggiati affiancati (per lo più appartenenti al medesimo proprietario), ognuno dotato di impianto di macinazione autonomo (es. M° Tirizzas, Samugheo, Foto 9).
E’ sovente, annesso al mulino, la presenza di un podere agricolo o un semplice orto.


La ruota


Il funzionamento del mulino idraulico consisteva, sostanzialmente, nella trasmissione di un moto rotatorio generato dalla forza dell’acqua sulle pale della ruota, orizzontale o verticale; la ruota, azionata dal flusso idrico, trasmetteva il movimento mediante un albero direttamente alla macina superiore, nel caso dei meccanismi a ruota orizzontale (ritrecine), o indirettamente con l’ausilio di ingranaggi nel caso di sistemi a ruota verticale (vitruviano).
Le meccaniche riscontrate nei mulini idraulici presenti in Sardegna sono prevalentemente quelle a ruota orizzontale e, ugualmente piuttosto diffuse, a ruota verticale.

Meccanismo a ruota orizzontale
Nel caso di mulino a ruota orizzontale (“ritrecine”) la turbina risultava alloggiata all’interno di un vano ad arco o a sezione rettangolare realizzato generalmente in posizione ribassata rispetto l’originario piano di campagna o, comunque, sotto il locale in cui erano alloggiate le macine.
Naturalmente, a partire da una condizione di deflusso piuttosto lento e omogeneo lungo la gora, al fine di imprimere forza all’acqua tale da poter azionare e conservare il movimento rotatorio alla ruota era necessario accelerarne il moto conferendo all’ultimo tratto della canalizzazione una improvvisa inclinazione e, spesso, la strozzatura della parte terminale. Un’estensione del canale (“doccia” o ”tuva”), realizzata in muratura o legno, attraversava le pareti e indirizzava direttamente il flusso idrico sul ritrecine alloggiato nel vano (es. M° Molinu, Santulussurgiu, Foto 1; M° Tirizzas, Samugheo, Foto 2). La ruota era costituita da una serie di “palette”, in numero generalmente compreso tra 12 e 24, essenzialmente in legno, con forma a cucchiaio, in maniera da “raccogliere” il getto proveniente dalla “tuva”. Il diametro della ruota era generalmente compreso tra 1,00 e 1,50 m.
La trasmissione del moto rotatorio veniva, quindi, assicurato all’apparato di macinazione ubicato all’interno dell’opificio direttamente tramite un albero (“fuso”), costituito da un'asta metallica o in legno, solidale con la macina superiore.
Talora il mulino di questa tipologia era dotato di doppio (es. M° Demontis, Guspini, Foto 3) o, addirittura, triplo (es. M° S. Lussorio, Musei, Foto 4) impianto di macinazione e, conseguentemente, del rispettivo numero di ruote e di relativi alloggi, in una condizione di perfetta autonomia l’uno rispetto l’altro. Il flusso dell'acqua a monte, in corrispondenza della “doccia”, naturalmente, poteva essere adeguatamente controllato, impedendone l’accesso, in quello escluso dalla lavorazione (es. M° Demontis, Guspini; Foto 5).




Meccanismo a ruota verticale

Nel caso di mulino a ruota verticale, questa risulta ubicata direttamente all’esterno dell’edificio (es. M° Pisano, Osilo, Foto 6; M° Marcello, Tiana, Foto 7) oppure all’interno di un vano, simile ad un cavedio, di dimensioni sufficienti al suo contenimento e alle attività di manutenzione (es. M° Ibba, Scano Montiferro, Foto 8; M° Vezzu, Olzai, Foto 9).
Come nel caso del funzionamento dei mulini a ritrecine, anche per assicurare il movimento rotatorio alla ruota verticale era necessario, generalmente, garantire la caduta dell’acqua con una certa velocità e convogliare il getto direttamente sulle pale della ruota (“getto dall’alto"). Per tale motivo, soprattutto se il piano topografico del terreno non assicurava un adeguato dislivello, il flusso dell’acqua veniva innalzato tramite una canalizzazione sospesa (es. M° Marcello, Tiana, Foto 10) o una struttura in muratura (es. M° Campomela, Cargeghe, Foto 11). Talora anche il solo scorrimento accelerato dell’acqua nella canalizzazione consentiva, con le pale immerse nella corrente (“dal basso”), l’azionamento della ruota.
A differenza della tipologia a ruota orizzontale, la trasmissione del moto rotatorio avveniva in maniera indiretta; un albero orizzontale collegato alla ruota imprimeva, tramite un sistema di ingranaggi, il movimento rotatorio ad un albero ortogonale collegato solidamente alla macina superiore. Il sistema più comune e classico utilizzato in passato era quello della coppia lubecchio-lanterna, costruito essenzialmente con elementi lignei. Il lubecchio, solidamente collegato alla ruota esterna mediante un asse orizzontale, era sostanzialmente una piccola ruota sulla cui superficie erano inseriti, in tutta la circonferenza, dei pioli che fungevano da denti, i quali si inserivano, alternativamente, negli spazi vuoti di un rocchetto cilindrico (“lanterna”), a sua volta solidale, tramite l'albero verticale, alla macina superiore (es. M° Vezzu, Olzai, Foto 12). Il sistema più avanzato di ingranaggio era rappresentato, invece, dalla "coppia conica" in metallo (es. M° Pisano, Osilo, Foto 13). Il meccanismo di trasmissione era generalmente ubicato al di sotto del soppalco che conteneva il piano di lavoro, in maniera da agevolare l’accesso e le periodiche attività di manutenzione (es. M° Pisano, Osilo, Foto 14; M° Vezzu, Olzai, Foto 15).

Ugualmente al sistema a ruota orizzontale, il meccanismo contemplava l’esistenza di un solo impianto di macinazione. Allo stato attuale è stato riconosciuto soltanto un mulino idraulico a ruota verticale dotato di doppio apparato di macinazione azionato da un ingegnoso sistema di ingranaggi, particolarmente utile per il risparmio di spazio e l’aumento della produttività (M° Deriu, Scano Montiferro, Foto 16).  

L'impianto di macinazione


La macinazione dei cereali avveniva mediante il movimento relativo di due macine, o palmenti, una fissa, inferiore, e una mobile, superiore.
La macina inferiore, solidamente ancorata al basamento, ha la superficie superiore leggermente convessa; è dotata centralmente di un’apertura (talora rivestita da un cilindro metallico coassiale) per consentire il passaggio dell’albero di trasmissione e il collegamento solidale di questo con la macina superiore.
La macina superiore, mobile, con faccia inferiore concava, è dotata di un’apertura centrale (“occhio”) per consentire l’ingresso del materiale da macinare (Foto 1). La superficie superiore o inferiore della macina è, inoltre, caratterizzata da una scannellatura che consente l’incastro della “nottola”, ossia una sbarretta in ferro collegata all’asse di trasmissione che attraversa il foro presente nel palmento inferiore, consentendole, in tal modo, la rotazione (Foto 2). Il palmento superiore ha spessore generalmente minore rispetto a quello sottostante e, quindi, minore peso.
Sia la macina inferiore sia quella superiore sono dotate, all’interfaccia, di scanalature, disposte secondo un preciso disegno, finalizzate alla diminuzione dell’attrito e, quindi, al miglioramento della qualità della macinazione, oltre a consentire la fuoriuscita dei materiali lavorati (Foto 3).
Riguardo il tipo di roccia, entrambe le macine risultano prevalentemente di natura vulcanica, meglio se di tipo poroso come quelle basaltiche o andesitiche, ma anche trachitiche, raramente di granito o di natura carbonatica. E’ probabile che la diffusione nei mulini presenti in Sardegna essenzialmente di macine in basalto della facies più bollosa, roccia piuttosto diffusa nell’Isola, garantiva una naturale rugosità della superficie della pietra utilizzata per macinare e, quindi, di una più efficace lavorazione del cereale.    

Le dimensioni delle macine sono per lo più comprese tra 0,80 e 1,00 m di diametro; lo spessore è compreso tra 10 cm e 30 cm, generalmente minore per la macina superiore rispetto a quella inferiore. La distanza relativa tra le due macine, da cui dipendeva il tipo di prodotto derivato, era opportunamente regolata tramite un congegno (“alzatoio”) costituito da una leva presente nel pavimento accanto al piano di lavorazione (es. M° Molinu, Santu Lussurgiu, Foto 4), che, collegata ad un asta e, quindi, ad una leva, generalmente in legno (“banchina”), agiva direttamente dal basso della ruota orizzontale variando l'altezza dell’albero di trasmissione (es. M° Licheri, Fluminimaggiore, Foto 5).
Le macine venivano confinate, generalmente, all’interno di un cassone, o vasca, per lo più di legno, con la funzione di raccogliere il materiale lavorato. Talora, entrambe le macine erano racchiuse da un telaio cilindrico in legno, rafforzato da fasce metalliche, con apertura inferiore per consentire la fuoriuscita del macinato (es. M° Marcello, Tiana, Foto 6).
Il piano di lavoro poteva essere impostato, in relazione alle caratteristiche costruttive e funzionali dell’edificio, o sopra un soppalco ispezionabile (come visto nei meccanismi a ruota verticale), o su un piano rialzato in muratura (es. M° Maladrottu, Loiri, Foto 7) o a livello di pavimento (es. M° Molinu, Santulussurgiu, Foto 8; M° S’Ispadula, Samugheo, Foto 9).
Sospesa nella verticale delle macine, generalmente mediante quattro tiranti in corda o catenella disposti nei vertici e ancorati sulle travi della copertura, era posizionata la tramoggia, ossia il contenitore a forma tronco piramidale, capovolto, con apertura superiore (lato di circa 50 cm) per il carico del materiale e piccola apertura sul fondo che, tramite una vaschetta a forma di mandibola (“cucchiaio”), consentiva la graduale caduta del cereale all’interno dell’apertura centrale (“occhio”) della macina superiore. Spesso, un’aletta pendente dal “cucchiaio” sulla superficie della macina, grazie alla vibrazione conferita dalla rotazione del sistema di macinazione, agevolava il riversamento della materia prima all’interno della pietra molitoria (es. Molinu, Sadali, Foto 10).   
La maggior parte dei mulini erano dotati di un solo impianto di macinazione; talora, la produttività era ottimizzata dalla presenza di più coppie di macine.
Considerata la notevole usura delle macine era necessaria una loro manutenzione periodica; questa avveniva con il sollevamento del palmento superiore mediante un palanco dotato di bracci che si agganciano, tramite perni, a fori ricavati alle estremità della macina (es. M° Ibba, Scano Montiferro, Foto 11). La manutenzione consisteva nella ribattitura, ossia nella reincisione delle scanalature delle facce interne delle macine. La ricollocazione della macina superiore nella sua sede era un’operazione piuttosto complicata che implicava una operazione di messa in asse ed equilibratura.


Web Design: Piludu.it - Cagliari